La diversificazione colturale

I principi di base dell’agricoltura biologica sono la cura della fertilità del suolo e l’equilibrio dell’ambiente in cui si coltiva. Bio significa la corretta applicazione dei principi di agroecologia, avendo come obiettivo quello di aumentare la biodiversità nel suolo e nel soprassuolo per la ricerca dell’equilibrio nutrizionale e ambientale. Bio non è, invece, la “sostituzione” di concimi, diserbanti, anticrittogamici, insetticidi e pesticidi in genere, con quanto ammesso dal regolamento europeo!
La rotazione (o avvicendamento) delle colture è una pratica che può nettamente partecipare alla valorizzazione della biodiversità portando benefici anche alla fauna e al paesaggio: evita che i terreni vadano incontro alla perdita di fertilità e in generale alla “stanchezza”, rende sostenibile la pratica agricola tramite il mantenimento della biodiversità e rappresenta principale elemento di controllo delle infestanti integrato da azioni meccaniche e di contenimento e prevenzione verso patologie e parassiti. Essa migliora quindi la resilienza dei sistemi in concomitanza a cambiamenti climatici, stabilizzando le rese e migliorando la conservazione del suolo.

La diversificazione colturale

Promuovere e gestire un sistema agroecologico significa mettere a valore la diversità e complessità dell’ecosistema. In questo senso, la diversificazione colturale è imperativa in agricoltura biologica, ma può anche rappresentare una sfida tecnica e di relazione con il mercato.
Per queste ragioni è opportuno stabilire degli obiettivi razionali per l’azienda e volgere verso un’organizzazione colturale che articoli la sostenibilità economica e ambientale coniugandola con la praticità delle soluzioni.

Il biologico non può prescindere da appropriate rotazioni agronomiche (in Italia prescritte anche da apposito Decreto Ministeriale), possibilmente di lungo periodo, che si rivelano più efficaci se, seguendo i principi agronomici di un corretto avvicendamento, contemplano specie di famiglie diverse, l’alternanza di colture a ciclo autunnale e primaverile, specie con caratteristiche diverse a livello radicale e portamento nel soprassuolo. Questo per concorrere alla prevenzione da malattie fungine e al contenimento delle infestanti, ma anche in chiave di gestione della fertilità del terreno e di equilibrio generale dell’ambiente colturale.

Equilibrate rotazioni, inclusive di leguminose per contribuire alla fertilità del suolo, richiedono anche lo sviluppo di corrispondenti filiere che possano valorizzare il ruolo economico delle colture inserite nell’avvicendamento. Questo può rappresentare un collo di bottiglia per la sostenibilità economica dell’azienda, così come pratiche quali i sovesci o l’uso di catch crops rivolte alla capitalizzazione dell’energia radiante, al contenimento delle malerbe e all’arricchimento in sostanza organica dei suoli, oltre che al controllo della lisciviazione di nutrienti: servizi ecosistemici che non necessariamente si traducono in virtuosità del conto economico aziendale, seppure caratterizzanti uno ‘stock a futuri’. Su questi aspetti, una riflessione matura in chiave di accompagnamento di corrette pratiche agroambientali con gli strumenti di politica agricola, può sostenere atteggiamenti virtuosi dei produttori e restituire legittimità ai contributi agricoli agli occhi dei cittadini capaci di comprendere la validità dei servizi ecosistemici offerti dal biologico.

Mentre l’agricoltura convenzionale, che dal 2014 nell’Unione Europea ha nell’integrato la baseline, può forzare l’avvicendamento contando su diserbo e concimi chimici, l’agricoltura biologica non solo per norma, ma per sua esigenza inderogabile (pena l’efficacia del metodo), ha la necessità di diversificare. Questo principio agronomico, si deve trasferire sull’organizzazione del mercato e l’integrazione tra filiere diverse, per poter abbinare alla sostenibilità ambientale quella economica. Un buon avvicendamento potrebbe avere l’esigenza di conferire le produzioni ad almeno due o tre filiere diverse che, se non in sinergia, potrebbero trovare il limite principale nella dimensione aziendale. Cioè superfici limitate dedicate ad ogni singola produzione, che per quantità prodotte, non giustificano i costi della logistica conseguente.

Ragionando su esempi di avvicendamento, trattando più specificatamente le colture cerealicole, il problema citato risulta evidente, soprattutto quando si scelgono avvicendamenti virtuosi dal punto di vista agronomico o, se vogliamo, agroecologico.
Infatti, anche la rotazione più semplice, ammessa ma largamente sconsigliabile, quale favino e frumento duro replicato per due cicli successivi pone il problema di trovare una filiera zootecnica capace di assorbire la proteaginosa. Anche se questa fosse per consumo umano, per esempio il cece, ci sarebbe la necessità di una filiera diversa da quella cerealicola molitoria.
Se poi si va su rotazioni/avvicendamenti più efficienti, la questione commerciale si complica soprattutto per le piccole e medie aziende che però sono la parte sostanziale del nostro panorama agricolo.
Favino o pisello proteico – frumento duro – frumento duro in deroga o frumento tenero – sovescio seguito da girasole frumento duro – farro; aggiunge un’altra filiera quella oleicola alle due precedenti. Il reingrano sarebbe ovviamente più sostenibile se realizzato dopo un erbaio poliennale che esalterebbe ulteriormente l’efficienza agronomica.
Comunque, qualunque soluzione colturale si voglia inserire, per esempio dopo il sovescio sostituendo al girasole il pomodoro da mensa o aggiungendo colture “ricche” tipo grano saraceno, la questione organizzazione delle filiere non cambia.
Fatto salvo il problema commerciale, entrando nel merito della sola parte agronomica, è chiaro che la disponibilità idrica o la coltivazione in areali siccitosi cambia radicalmente le scelte.

Va detto però che le condizioni pedoclimatiche devono orientare le scelte, non derogare ai principi del metodo. La diversificazione, nelle condizioni di oscillazioni estreme del mercato, diventa non solo soluzione agronomica ma anche commerciale, soprattutto se analizzata in un quadro d’insieme e non di singola coltura.
È questo l’approccio, in buona parte obbligato, che il sistema biologico è chiamato a fare, più di quanto vi sia costretto il convenzionale, dovendo coniugare le esigenze agroecologiche dell’attività primaria con il quadramento dei conti economici.
D’altro canto, se le rese sono confrontate per l’intera rotazione, a parità di concimazione azotata, la rotazione biologica (mais/frumento/prato) produce più sostanza secca (+ 22%) e più proteina (+ 47%) rispetto ad una rotazione convenzionale senza prati (mais/frumento/pisello).
Concimando con letame (a parità di azoto distribuito), adottando una rotazione almeno triennale e inserendo nella rotazione prati avvicendati con leguminose si rileva inoltre, rispetto al convenzionale, una resa elevata del prato di leguminose letamato, che compensa le minori produzioni dei cereali biologici. In particolare, le produzioni dell’intera rotazione in assenza di prati, rispetto all’impiego di soli concimi minerali, sono +20% di sostanza secca e +45% di proteina.

In conclusione, la pratica della rotazione aziendale è fondamentale per le aziende biologiche, perché:
·       la rotazione pluriennale è quella che permette una maggiore concentrazione di sostanza organica rispetto all’agricoltura convenzionale, azzerando il rischio di problemi fitosanitari e di persistenza delle erbe infestanti;
·       la pratica diffusa di semina di un cereale dopo un prato poliennale di erba medica ha dimostrato, negli anni, eccellenti risultati in termini di resa e di qualità della granella;
·       i cereali minori, essendo poco “esigenti”, possono seguire il frumento duro o tenero senza alcun problema nutrizionale o fitosanitario e garantendo comunque una buona produttività.

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Questo contenuto è stato realizzato all’interno del progetto Funky Gal 2 il primo sportello del biologico nell’ambito del FEARS programma di sviluppo rurale 2014-2020, operazione 3.2.01 – Informazione e promozione dei prodotti di qualità.

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